domenica 11 novembre 2012

Delitto e Castigo... un pretesto!

La storia, per l’autore, è un pretesto per esprimere uno o più pensieri su un determinato argomento. Il protagonista spesso non è il portatore di tale pensiero, ma lo sono i personaggi secondari, a volte anche i terziari, che appaiono per un solo capitolo e lì si svela il mistero. Capita che il protagonista non sia il buono, anche quando dice di esserlo, e che l’autore lo detesti persino, soprattutto se viene amato da chi lo legge; ma l’ha inventato lui, quindi lo odierà ed amerà, senza rimedio. La storia è un pretesto, per dire qualcosa. Per Dostoevskij sembra che la risposta sia l’amore: quando Svista perde la sua illusione e speranza d’amore, decide di togliersi la vita; e quando, invece, Raski trova e accetta l’amore, rinasce. La prigione non salva gli altri uomini da un assassino né i lavori forzati agiscono su di lui come un castigo che porta al pentimento; no, è solamente l’amore che riesce in questo, o meglio ancora, la speranza di avere questo amore. Raski cercava da sempre un pretesto per vivere, qualcosa per cui sopportare ogni sofferenza, perciò arrivò a compiere il delitto, perché in esso voleva dimostrare una sua certa “teoria”… Voleva dimostrare a se stesso che potesse uccidere senza rimorsi, perché stava uccidendo un “pidocchio” della società e la società intera ne avrebbe beneficiato; gli uomini d’ingegno devono per lo sviluppo dell’umanità compiere certi atti per migliorare tutto il resto. Raski però non riesce a mettere in pratica la sua teoria e, in fondo al cuore, lo sapeva fin dall’inizio che non sarebbe riuscito nel suo intento; ma non si pente. Raski non si pente mai del delitto che non considera un delitto, perché ha ucciso un “pidocchio” inutile della società; l’unico problema è che lui stesso è un pidocchio, dal momento che si domanda se la vecchia uccisa è davvero quel pidocchio che dovrebbe essere… Se si domanda ciò, non ha importanza se la vecchia è un pidocchio per la società, perché per lui, evidentemente, non lo è. Raski ha ventitré anni, come me, e decide di costituirsi solamente per orgoglio… ma forse lo fa per amore, quando ancora non sa che lo sta facendo per Sonia, o forse non vuole accettarlo. Non è pentito, ma adesso vuole ricominciare. Non cerca di difendersi e non tenta in nessun modo di diminuire la cattiveria della sua azione, ma ciò, paradossalmente, contribuisce a ridurgli la pena: otto anni in Siberia ai lavori forzati.
Una delle parti che più mi è piaciuta nel romanzo, è l’ultimo colloquio che Raski ha con il giudice istruttore, Pietro, che quasi mi ha commosso… Pietro mi sta simpatico anche se non riesco a capirne a fondo le ragioni… Pietro sa che è lui il colpevole e dice di averne finalmente anche le prove, ma vuole che sia Raski a costituirsi… Perché ha solo ventitré anni e la sua vita è ancora lunga. Perché può riscattarsi, ma per farlo deve tornare a credere nella vita… deve trovarsi una fede in cui vivere, un’idea, un principio, una ragione… E Raski ciò lo trova in Sonia e Sonia lo trova in lui.
Ma la storia di Raski e Sonia sembra più un pretesto per una critica nell'esecuzione della giustizia del tempo in cui visse Dostoevskij in Russia… C’è un personaggio con idee particolarmente moderne, che s’incontra soltanto in pochissimi capitoli verso la fine; è l’affittuario di Lupin (il quale, tra l’altro, esce vergognosamente di scena… sembra più meschino e cattivo Lupin di Raski che ha ucciso…). Di questo personaggio, parlerò un'altra volta... 
Raski, in fondo, è buono… Ha anche salvato due bambini da un incendio procurandosi delle gravi scottature, tempo prima dal commette il duplice omicidio. Raski non uccide per il denaro, il denaro è solo il pretesto; uccide per dimostrarsi che può farlo. Si pente solamente di non essere riuscito ad uccidere la vecchia, anche se materialmente lo ha fatto, in quel momento, lui, ha ucciso se stesso… Lui è andato nel panico e si è fatto sopraffare dall’azione commessa e, nonostante ciò che afferma incessantemente, questa non è la coscienza? Raski si convince che è l’orgoglio nella “missione” fallita, che lo ha portato alla sofferenza e alla confessione… ma perché ha fallito se non perché la sua coscienza non ha cominciato a tormentarlo? Una coscienza che ha cercato in un umano, ovvero in Sonia, che nonostante il suo “mestiere”, è la persona più credente e pura che s’incontra nel romanzo; ed è questo controsenso che smuove dei primi veri sentimenti in Raski.
Ho terminato la lettura meno di un’ora fa, precisamente, alle 13:03 (sapete che scrivo data e orario sul romanzo al termine di ogni lettura); e mi è piaciuto molto, ma non credo di averlo metabolizzato ancora a fondo. Nonostante mi fosse sembrata una lettura infinita, quando ho superato le trecento pagine mi è dispiaciuto che stesse per finire, ma ero ancora più volonterosa e incuriosita di arrivare all’ultima pagina, per sapere come finisse.
Ho scritto tanto seguendo solo il flusso dei pensieri, un po’ come faceva Raski durante i suoi mille deliri eheh E, perciò, non rileggerò! Ma devo concludere in qualche modo… dirò che, nonostante Dostoevskij presenti l’amore come la soluzione di ogni cosa, anche questo sembra più un pretesto letterario, per i fini del romanzo, che un suo vero pensiero… ma avrà acconsentito di concludere così la vicenda, perché le critiche le aveva già disseminate tra i vari capitoli, e, quindi, perché non crederci o sperarci che l’amore sia la soluzione di ogni cosa? Chi, in fondo, non ci spera? Persino, un assassino e una prostituta, abbandonati da tutti e tutto, o forse soltanto da se stessi... il che è anche peggio "se nessuno più mi amasse, sarebbe più facile", dice Raski pensando alla madre, alla sorella, all'amico, a Sonia e a molta altra gente...  quindi, perché non anche noi altri?


                                                                                                                                                          

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