venerdì 25 gennaio 2013

La lettera scarlatta: qual è il peccato più grave, l’adulterio, la vendetta o la punizione puritana del primo?


94.  

LA LETTERA SCARLATTA, 

Hawthorne Nathanial 

Finito di leggere ieri sera.
Nat, più che raccontare la storia dei protagonisti, sembra voglia farci comprendere il pensiero che segnò la Nuova Inghilterra puritana, ma direi non soltanto quella… I giudici e il popolo, un tempo si occupavano e trattavano storie di vita privata, peggio di come non avrebbero fatto per casi di violenza e di assassinio.
Fin dai primi capitoli, è facile intuire chi è “l’uomo che ha peccato con Ester”, che lei non volle mai rivelare. Nat non lo nomina mai, non lo dice mai chiaramente sino alla fine, ma è ovvio; non tenta di celarlo veramente. Certe spiegazioni non occorre darle.
La personalità che più mi ha intrigata, è proprio quella del pastore: uomo che si distrugge sotto il peso dei sensi di colpa, per una colpa che la vergogna e la vigliaccheria gl’imposero di non rivelare. Uomo visto come un santo, e più viene amato e adorato, più il suo dolore accresce.
Ester invece accettando la punizione per la propria colpa, ne esce più forte di prima. Che poi qual è la vera colpa? È davvero lei la vera e sola peccatrice?
E poi c’è l’offeso, che non per molto tempo ci appare come la vittima della storia. Ad un certo punto, Ester gli dice: 

“Ho detto poco fa che non ci sarà più del bene sulla terra per tutti noi, che inciampiamo ad ogni passo nel male stesso che abbiamo seminato sulla nostra strada; ma non è esatto… Per te, potrebbe esserci ancora del bene, perché sei l’offeso ed è in tuo potere perdonare”.

La parte che mi è piaciuta di più: la scena iniziale. Sulla pubblica piazza. Ester accusata e costretta ad indossare la lettera scarlatta come marchio della sua colpa. E Arthur, di fronte a lei, spinto dalle altre autorità, a persuadere la donna a rivelare il nome dell’uomo con cui concepì Pearl…

Ne hanno ricavato un film, che, a differenza del romanzo di Nat, quasi per paradosso è decisamente più “romanzato”. Incorporo il trailer.


martedì 18 dicembre 2012

"L'eroe della mia vita"


Qualcuno me la pagherà!

Intanto, buongiorno Civettuoli!
C’era qualcosa che non mi tornava nella lettura di DAVID COPPERFIELD; non mi era sembrato quel gran capolavoro di cui tutti parlano. Stando alle recensioni lette, i personaggi non li avevo per niente trovati particolarmente ben descritti né profondi, al contrario tutto sembrava appena appena accennato e addirittura striminzito, e ieri pomeriggio ho capito il perché!

La copia che ho ritrovato nella libreria di casa – nonché quella che ho letto - è un’edizione del novembre 1971 e, oltre ad avervi già fatto notare che ogni nome fosse stato “tradotto” in italiano, è stato anche ridotto  d'interi paragrafi e addirittura capitoli! Non ho, dunque, letto l’edizione integrale, ma un romanzo con più di settecento pagine in meno! Sono notevolmente incavolata! Aaaaaaah! Spaccherò quel libro in testa a qualcuno!

Che senso ha pubblicare libri a metà (anzi, in questo caso, a meno di tre quarti!)? È come censurarli! È come pubblicare il riassunto dell’opera! Adesso, mi toccherà rileggerlo sapendo già cosa accadrà, evviva! Ma Charles, e non la mia sfida, credo che se lo meriti. Quindi, ieri sera, mi sono procurata l’edizione integrale, ma in ebook. Ho iniziato a leggerla e già l’incipt è totalmente diverso. La comparazione è la seguente: 84 pagine lette dell’edizione integrale corrispondono a 14 pagine dell’edizione del 1971. Sembra un altro romanzo! E già da queste prime pagine, la mia opinione sul libro di Dickens è radicalmente cambiata.

Riporto l'incipit: 

Si vedrà da queste pagine se sarò io o un altro l'eroe della mia vita. Per principiarla dal principio, debbo ricordare che nacqui (come mi fu detto e credo) di venerdì, a mezzanotte in punto. Fu rilevato che nell'istante che l'orologio cominciava a battere le ore io cominciai a vagire. 
Dall'infermiera di mia madre e da alcune rispettabili vicine, alle quali stetti vivamente a cuore parecchi mesi prima che fosse possibile la nostra conoscenza personale, fu dichiarato, in considerazione del giorno e dell'ora della mia nascita, primo: che sarei stato sfortunato; secondo: che avrei goduto il privilegio di vedere spiriti e fantasmi; giacché questi due doni toccavano inevitabilmente, com'esse credevano, a quelli sciagurati infanti dell'uno o dell'altro sesso, che avevano la malaugurata idea di nascere verso le ore piccole di una notte di venerdì. 




lunedì 17 dicembre 2012

Charles Copperfield


Bentornati, civettuoli!

Il David Copperfield è stato letto.
Resoconto di ciò che mi resta dalla sua lettura:

1)      Uriah Heep: un personaggio poco raccomandabile, all’apparenza innocuo, che sfoggia continuamente la sua umiltà, per poi subdolamente raggirarti, incastrarti e fotterti (avrei potuto usare un termine meno volgare, me ne rendo conto, ma è il primo che mi è venuto in mente che descrivesse perfettamente ciò che intendessi, e poi, chi se ne frega? È il mio blog e non mi autocensurerò :p). Uriah Heep compare tra questi punti perché mi ricorda fortemente una persona che conosco nella realtà ed è facile intuire quanto mi stia “simpatica”.
2)    Charles narra la propria vita attraverso le gesta di Copperfield: un bambino solo e picchiato dal patrigno e poi un uomo che diventerà uno scrittore di successo.
3)      Frase dal romanzo: “Frattanto nessuno veniva a cercare il ragazzo polveroso, proveniente dal Suffolk. Più solitario di Robison Crusoe, che almeno nessuno vedeva quanto fosse solo…”
4)      Devo ammettere che più della metà dei personaggi, non li sopporto. E siccome Charles descrive alla perfezione diversi caratteri umani, deduco che sono eccessivamente intollerante verso molti prossimi miei… Ma ci sono anche dei personaggi di cui sarei diventata amica: Agnese, l’Emilietta ed Ham.
5)      In DAVID COPPERFIELD tutto è bene, quel che finisce bene. Alcuni buoni muoiono da eroi, i cattivi pagano e altri buoni, finalmente, superano la tempesta per assaporare il proprio “e vissero felici e contenti”. Troppo da romanzo, il finale, per i miei drammatici gusti! Ma per David va benissimo così ;)



Ma parliamo della prossima lettura che sarà il numero 94 della nostra lista, ovvero LA LETTERA SCARLATTA di Nathaniel Hawthorne; romanzo che mi è stato prestato dalla nostra Cetty che ringrazio anche qui.
Ho letto solamente la premessa è già posso dire di adorare Nat!
Inoltre, è nato e cresciuto a Salem, altro punto a suo favore.


PREFAZIONE 

ALLA SECONDA EDIZIONE 

DE 

“LA LETTERA SCARLATTA”.

Con sua grande sorpresa e con una buona dose di divertimento (se così gli è permesso dire senza recare ulteriore offesa), l’autore apprende che la sommaria descrizione della vita burocratica, premessa a La lettera scarlatta, ha creato un’agitazione senza precedenti nella rispettabile comunità a lui più vicina. Difficilmente si sarebbe avuta una reazione più violenta, se avesse distrutto col fuoco la dogana, e ne avesse spento l’ultimo tizzone fumante nel sangue di un venerabile personaggio, contro il quale si suppone che egli sia animato da particolare odio. Dal momento che la pubblica disapprovazione peserebbe fortemente su di lui, qualora fosse consapevole di meritarla, l’autore chiede il permesso di dire che ha attentamente riletto le pagine introduttive, col proposito di modificare o espungere qualsiasi cosa potesse ritenersi fuori luogo, e al fine di riparare nel miglior modo possibile alle atrocità di cui è stato giudicato colpevole. Ciò nonostante, egli ha l’impressione che le uniche caratteristiche degne di nota di quelle pagine siano la franca e genuina bonomia, e la generale precisione con cui ha espresso le sue sincere impressioni sui personaggi ivi iscritti. Quanto poi all’ostilità o al malumore di qualsiasi natura, personale o politica, l’autore nega assolutamente tali motivi. La descrizione avrebbe potuto, forse, essere interamente omessa senza perdita per il pubblico o danno per il libro; ma, essendosi ormai preso la briga di scriverla, ritiene che non avrebbe potuto essere fatta in uno spirito migliore o più benevolo né, per quanto lo consentano le sue capacità, con un più vivace effetto di verosimiglianza. L’autore è costretto, pertanto, a ripubblicare le sue pagine introduttive senza cambiare una parola.

Salem, 30 marzo 1850


venerdì 30 novembre 2012

Con "Cime Tempestose" capisci che Giulietta e Romeo sono stati fortunati!

Buongiorno Civettuoli!
Non mi sono dimenticata della sfida, anche se non scrivo da più di una settimana. Negli ultimi giorni, le ore a mia disposizione per la lettura, le ho invece dedicate alla scrittura… e, perciò, la lettura di David Copperfield va un po’ a rilento. In condizioni normali, è un romanzo che scorre velocemente. Sin dalla prima pagina, le descrizioni di Charles mi hanno come incantata: immersa immediatamente nell’ambientazione. L’ultima volta che ho letto di Davide (perché tutti i nomi del libro che possiedo, sono stati trasformati nella loro versione in italiano. Un tempo era solito farlo, anche per gli autori che, in questo caso, Charles nella biografia viene qui chiamato Carlo) si era messo in viaggio alla ricerca della zia perduta, dopo che si era fatto fregare – di nuovo! – denaro e bagagli.

Oggi, dunque, andrò indietro nel tempo; precisamente viaggerò fino a febbraio 2009, quando finii di leggere il numero 32 della nostra lista.

Il numero 32 è CIME TEMPESTOSE di Emily Brontë.



Trovai il primo capitolo una vera calamita, ma le aspettative che mi lasciò furono deluse. Il primo capitolo mi portò decisamente fuori strada, ma, in seguito, certe frasi del romanzo scavarono nel mio animo romantico, esaltandolo, coccolandolo, vezzeggiandolo. Ma non vorrei ingannarvi, è una storia tremendamente drammatica; in confronto “Romeo e Giulietta” non finisce poi tanto male… Ha il sapore di una tragedia antica, ma romanzata. I protagonisti non fanno che commettere errori e lasciare dietro di sé sangue e morte, per un amore mai vissuto… Almeno, Romeo e Giulietta si sposarono e vissero una notte insieme, se pure soltanto una… Giulietta non sposa Paride. Romeo non sposa la sorella di Paride per vendetta. Giulietta non ha una figlia da Paride che Romeo manipola per farla sposare al figlio che ha avuto dalla sorella di Paride. Però, come Romeo e Giulietta, Catherine e Heathcliff non possono continuare a vivere se l’altro muore… o morte o pazzia. Heathcliff sceglie una furente pazzia, per un po’…
Certe frasi di CIME TEMPESTOSE sono piuttosto celebri. Vi riporterò frammenti di pag. 98 /103, ovvero il dialogo tra Catherine e Nelly.

“… - Perché lo amate, signorina Cathy?
– Che sciocchezze, lo amo.. e tanto basta. 
- Nient’affatto; perché?
- Perché è bello, e di buona compagnia.
- Male!
- Perché è giovane e allegro.
- Peggio ancora.
- E perché mi ama.
- Il che non ha la minima importanza.
- Diventerà ricco, e a me piace l’idea d’essere la più gran dama dei dintorni, e sarò fiera di avere un marito come lui.
- Peggio che mai! E ditemi; come lo amate?
- Come ama chiunque… Sei una sciocca, Nelly!
- Nient’affatto… Rispondete.
- Amo la terra sotto i suoi piedi, e l’aria che respira, e tutto quello che tocca e che dice… Amo il suo aspetto, le sue azioni, amo tutto quanto in lui. Ecco!
- E perché?
- Oh… per te è tutto uno scherzo; sei cattiva! Non è uno scherzo, per me!
(…) – Non scherzo affatto signorina Catherine. Voi amate il signor Edgar perché è bello, giovane, allegro e ricco, e perché vi ama. E quest’ultima cosa non ha valore, perché probabilmente l’amereste anche se non vi amasse; mentre non l’amereste se vi amasse senza possedere le altre quattro doti (…) Ma il mondo è pieno di altri giovanotti ricchi e attraenti, probabilmente più ricchi e più attraenti di lui. Cosa v’impedisce di amare anche loro?
- Se ce ne sono, io non li ho mai incontrati… Non conosco nessuno come Edgar.
- Potrebbe capitare d’incontrarli; e lui non sarà sempre giovane e attraente, e forse nemmeno ricco.
- Ma lo è adesso; ed è il presente che m’interessa… Vorrei che tu parlassi in modo più ragionevole.
- Bene, dunque: il problema è risolto. Se è solo il presente che v’interessa, sposate il signor Linton.
- Non ho bisogno del tuo permesso per sposarlo! Però non mi hai ancora detto se ho fatto bene.
- Benissimo; se ci si deve sposare pensando solo al presente. E ora sentiamo, cos’avete da essere infelice. Vostro fratello sarà contento, e non penso che il signore e la signora Linton avranno da obiettare… Lascerete una casa disordinata e cupa per entrare in una ricca e rispettabile; amate Edgar ed Edgar vi ama… Sembra filare tutto liscio… dov’è il problema?  
- Qui! È qui!, ribatté lei battendosi una mano sulla fronte e l’altra sul petto. - Dovunque si trovi l’anima, perché la mia anima e il mio cuore mi dicono che sbaglio!
- Questo sì che è strano, proprio non capisco!
- È il mio segreto; e se prometti di non prendermi in giro, te lo spiegherò. Non so farlo con parole chiare, ma cercherò di darti un’idea di quello che provo (…) Hai mai fatto sogni strani, Nelly? (…) A volte ho fatto sogni che mi sono rimasti dentro e hanno cambiato il mio modo di pensare; mi hanno attraversata come il vino attraversa l’acqua, trasformando il colore della mia mente. E questo… ora te lo racconterò, ma bada di non sorridere (…) Se fossi in paradiso, Nelly, sarei molto infelice.
- Perché non siete degna di andarci, risposi. – Tutti i peccatori sarebbero infelici in paradiso.
- No, non per questo. Una volta ho sognato di esserci… (…) Il paradiso non sembrava adatto a me. Piangevo da spezzare il cuore perché volevo tornare sulla terra, e alla fine gli angeli si arrabbiarono tanto che mi scaraventarono giù, in mezzo all’erica che cresce sopra Cime Tempestose; e là mi svegliai piangendo di gioia. Tanto basterà a svelarti il mio segreto, e anche il resto. Il mio posto non è al fianco di Edgar Linton più di quanto non sia in paradiso; e se quell’uomo malvagio chiuso là dentro non avesse spinto Heathcliff così in basso, non mi sarebbe mai venuto in mente. Ma ora per me sposare Heathcliff significherebbe degradarmi, perciò non gli dirò mai quanto lo amo; e non perché sia attraente, Nelly, ma perché è me più di quanto lo sia io stessa. Di qualunque sostanza siano fatte le anime, le nostre sono uguali, mentre quella di Linton è diversa, come un raggio di luna è diverso dal lampo, o il ghiaccio dal fuoco. (…) Voglio ingannare la mia coscienza inquieta, e convincermi che Heathcliff non sa niente di tutto questo… È così, vero? Non sa che cosa significhi essere innamorati…
- Non vedo perché non dovrebbe saperlo proprio come voi, replicai. – E se ha scelto voi, sarà l’uomo più infelice al mondo! Appena diventerete la signora Linton, perderà amicizia, amore, tutto! Avete pensato a come potreste sopportare la separazione? E a come lui potrà sopportare di essere abbandonato? Perché, signorina Catherine…
- Abbandonato! Separazione!, esclamò sdegnata. – E chi potrà separarci? Incontrerebbe il destino di Milone! Non fin quando avrò vita, Ellen, e per nessuno al mondo! Tutti i Linton possono scomparire dalla faccia della terra, prima che acconsenta a dimenticare Heathcliff. No, non è questo che voglio! Non diventerei mai la signora Linton a questo prezzo! Edgar dovrà sbarazzarsi della sua antipatia per lui, o almeno tollerare la sua presenza, e lo farà di sicuro quando capirà quello che provo per Heathcliff. Oh, Nelly, ora capisco, mi giudichi una terribile egoista, ma non hai mai pensato che se Heathcliff e io ci sposassimo, saremmo poveri in canna? Mentre, se sposo Linton, potrò aiutare Heathcliff a risollevarsi e sottrarlo alla prepotenza di mio fratello. 
- Con i soldi di vostro marito, signorina Catherine? Non vi sarà facile convincerlo, e anche se non tocca a me giudicare, questo mi sembra il peggiore dei motivi per sposare il giovane Linton.
-  Anzi! È il migliore! Gli altri miravano a soddisfare i miei capricci o i desideri di Edgar. Questo, invece, è per il bene di chi riunisce nella sua persona i miei sentimenti per Edgar e per me stessa. Non so come spiegarlo; ma certo anche tu sai che c’è, o dovrebbe esserci, una vita al di là di noi stessi. A che servirebbe l’avermi creata, se fossi tutta qui? I miei più grandi dolori sono stati i dolori di Heathcliff, e tutti li ho conosciuti e provati fin dal principio; è lui la mia ragione di vita. Se tutto il resto perisse, tranne lui, continuerei a esistere; e se tutto il resto rimanesse, e lui fosse annientato, l’universo mi sarebbe estraneo. Non ne farei più parte. Il mio amore per Linton è simile alle foglie dei boschi. So che il tempo lo muterà, come l’inverno muta gli alberi… ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne sotto di noi… una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff… lui è sempre, sempre nella mia mente… non come un piacere, non più di quanto io sia un piacere per me stessa, ma come il mio stesso essere, perciò non parlarmi di separazione… è impossibile, è…” 

venerdì 16 novembre 2012

Ai lavori forzati...


Bonsoir!

Volevo cambiare genere, magari scegliere un romanzo fantascientifico, ma ho trovato in casa “David Copperfield” e ieri sera, tra lampi, tuoni, vento forte e la corrente elettrica che mancava, non sapendo che altro fare, ho iniziato a leggerlo con una torcia in mano. E' una copia di mia madre, ben curata come i libri di un tempo, con tanto di foto dei personaggi immaginari. Mi piace un casino il profumo di carta "vecchia" che e emana... Credo che anni fa provai a leggerlo, c'è un segnale a pagine 43, ma non ne ho memoria. Forse, quel segnale era di mia madre... 

DAVID COPPERFIEDL è il numero 42 della nostra lista.

Charles Dickens nacque duecento anni, nove mesi e nove giorni fa. Scrisse il suo primo romanzo a ventuno anni e, come è scritto nella sua biografia ad introduzione del romanzo, “combatté accanitamente, nelle sua opera di scrittore, l’ipocrisia, i cattivi costumi ed i numerosi difetti della società di allora”. Mi sta già piuttosto a cuore…

Fëdor Dostoevskij lesse “DAVID COPPERFIELD” nel campo di prigionia in Siberia e ne rimase affascinato (già, sembra che inconsciamente sto continuando a proseguire sullo stesso filo!). Sapete che a Dostoevskij è stato dedicato un cratere sulla superficie di Mercurio? Chissà cosa ne penserebbe…
Fëdor, prima di scrivere DELITTO E CASTIGO, venne arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi e condannato alla pena di morte nel 1849. Lo zar Nicola I cambia la sua condanna di morte in lavori forzati a tempo indeterminato, ma a Fëdor viene comunicato solamente sul patibolo, nonostante si sapesse già da giorni la sua nuova sorte. Ciò, com’è evidente, segnerà molto lo scrittore portandolo a riflettere sulla pena di morte e a scriverne spesso sulla propria contrarietà. Venne, poi, liberato per buona condotta nel 1850 per scontare, infine, il resto della condanna come soldato semplice.
Su DELITTO E CASTIGO,  al capitolo sesto della parte seconda, Raski pensa: “Dove ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, dice o pensa che se gli fosse toccato vivere su un’alta cima, su una roccia, o su di uno spiazzo tanto stretto da poterci posare soltanto i suoi due piedi - e intorno a lui ci fossero degli abissi, l’oscurità eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta – e dovesse rimaner così, in un arscin di spazio, per tutta la vita, per mille anni, in eterno – preferirebbe vivere in quel modo che morire subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere!... Che verità! Che verità! Signore! È vile l'uomo!... Ed è vile chi per questo lo chiama vile”.

Anche Oscar Wilde fu condannato a due anni di lavori forzati… James Joyce scrive un articolo sulla sua vita, pubblicato il 24 marzo 1909 sul “Piccolo della Sera”, un giornale di Trieste. Un articolo scritto in italiano dallo stesso autore. Leggerlo mi ha fatto commuovere e interrogare più del romanzo e, mi rendo conto, che nei panni di Oscar non mi farebbe per nulla piacere; ma, come giustificazione, si può dire che è difficile restare impassibili alle parole di James, scrittore non da meno degli altri sopra citati. E mi fa uno strano effetto scoprire di questi grandi autori che si son letti l’un l’altro e, in qualche modo, si sono difesi e protetti, anche senza conoscersi personalmente, apprendendo vicendevolmente dalle letture di ciò che scrivevano; ma, gli scrittori d’oggi, lo fanno anche loro?

Oscar Fingal O'Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti ch'egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontespizio della sua prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva nobilitarsi scolpiva forse in modo simbolico, il segno delle sue pretese vane e la sorte che già l'attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscar, nipote del re Fingal e figlio unigenito di Ossian nella amorfa odissea celtica, ucciso dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O'Flahertie, truce tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medievali, ed il cui nome, incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce all'antica litania dei santi fra le pesti, l'ira di Dio e lo spirito di fornicazione "dai feroci O'Flahertie, libera nos Domine". Simile a quell'Oscar egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la morte civile mentre sedeva a mensa coronato di finti pampini e discorrendo di Platone: simile a quella tribù selvatica doveva spezzare le lance della sua facondia paradossale contro la schiera delle convenzioni utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei giusti recitare il suo nome assieme a quello dello spirito immondo.


Il Wilde nacque cinquantacinque anni fa. Suo padre era un valente scienziato, ed è stato chiamato il padre dell'otologia moderna: sua madre partecipò al movimento rivoluzionario letterario del '48, collaborando all'organo nazionale sotto lo pseudonimo di Speranza con le sue poesie e con articoli incitanti il popolo alla presa del castello di Dublino. Ci sono delle circostanze riguardanti la gravidanza di Lady Wilde e l'infanzia del figlio che, al parer di alcuni, spiegano in parte la triste mania (se cosi è lecito chiamarla) che lo trasse più tardi alla rovina, ed è certo almeno che il fanciullo crebbe in un ambiente di sregolatezze e di prodigalità. 

La vita pubblica di Oscar Wilde si aperse all'Università di Oxford ove, all'epoca della sua immatricolazione, un solenne professore di nome Ruskin, conduceva uno stuolo di efèbi anglosassoni verso la terra promessa della società avvenire, dietro una carriola. 

Il temperamento suscettibile di sua madre riviveva nel giovane; ed egli risolse di mettere in pratica, cominciando da se stesso, una teoria di bellezza in parte derivata dai libri di Pater e di Ruskin ed in parte originale. Sfidando le beffe del pubblico proclamò e praticò la riforma estetica del vestito e della casa. 

Tenne dei cicli di conferenze negli Stati Uniti e nelle province inglesi e diventò il portavoce della scuola estetica, mentre intorno a lui andava formandosi la leggenda fantastica dell'apostolo del bello. Il suo nome evocava alla mente del pubblico un'idea vaga di sfumature delicate, di vita illeggiadrita di fiori: il culto del girasole, il suo fiore prediletto, si propagò fra gli oziosi ed il popolo minuto udì narrare del suo famoso bastone d'avorio candido luccicante di turchesi e della acconciatura neroniana dei suoi capelli. 

Il fondo di questo quadro smagliante era più misero di ciò che i borghesi immaginavano. Medaglie, trofei della gioventù accademica, salivano di quando in quando il sacro monte che ha il nome di pietà; e la giovane moglie dell'epigrammatico dovette qualche volta farsi prestare da una vicina il danaro per un paio di scarpe. Il Wilde si vide costretto ad accettare il posto di direttore di un giornale molto insulso; e solo colla rappresentazione delle sue commedie brillanti egli entrò nella breve fase penultima della sua vita: il lusso e la ricchezza. Il "Ventaglio di Lady Windermere" prese Londra d'assalto. Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw, diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi. Diventò un arbitro d'eleganze nella metropoli e la sua rendita annua, provento dei suoi scritti, raggiunse quasi il mezzo milione di franchi. Sparse il suo oro fra una sequela di amici indegni. Ogni mattina acquistò due fiori costosi, uno per sé, l'altro per il suo cocchiere; e persino il giorno del suo processo clamoroso si fece condurre al tribunale nella sua carrozza a due cavalli col cocchiere vestito di gala e collo staffiere incipriato. 

La sua caduta fu salutata da un urlo di gioia puritana. Alla notizia della sua condanna la folla popolare, radunata dinanzi al tribunale, si mise a ballare una pavana sulla strada melmosa. I redattori dei giornali furono ammessi all'ispettorato ed, attraverso la finestrina della sua cella, poterono pascersi dello spettacolo della sua vergogna. Strisce bianche coprirono il suo nome sugli albi teatrali; i suoi amici lo abbandonarono; i suoi manoscritti furono rubati mentre egli, in prigione, scontava la pena inflittagli di due anni di lavori forzati. Sua madre morì sotto un nome d'infamia: sua moglie morì. Fu dichiarato in istato di fallimento, i suoi effetti furono venduti all'asta, i suoi figli gli furono tolti. Quando uscì di carcere i teppisti sobillati dal nobile marchese Queensberry l'aspettavano in agguato. Fu cacciato, come una lepre dai cani, da albergo in albergo. Un oste dopo l'altro lo respinse dalla porta, rifiutandogli cibo ed alloggio, e al cader della notte giunse finalmente sotto le finestre di suo fratello piangendo e balbettando come un fanciullo. 

L'epilogo volse rapidamente alla sua fine e non vale la pena di seguire l'infelice dalla suburra napoletana al povero albergo nel quartiere latino, ove morì di meningite nell'ultimo mese dell'ultimo anno del secolo decimonono. Non vale la pena di pedinarlo come fecero le spie parigine: morì da cattolico romano, aggiungendo allo sfacelo della sua vita civile la propria smentita della sua fiera dottrina. Dopo aver schernito gli idoli del foro, piegò il ginocchio, essendo compassionevole e triste chi fu un giorno cantore della divinità della gioia: e chiuse il capitolo della ribellione del suo spirito con un atto di dedizione spirituale. 

Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l'atavismo e la forma epilettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio. 

La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra; ed è ben noto che l'autorità inglese fece il possibile per indurlo a fuggire prima di spiccare contro di lui un mandato di cattura. A Londra sola, dichiarò un impiegato del ministero dell'interno, durante il processo, più di ventimila persone sono sotto la sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero fintantoché non provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici furono lette dinanzi alla Corte ed il loro autore venne denunziato come un degenerato, ossessionato da pervertimenti erotici. "Il tempo guerreggia contro di te; è geloso dei tuoi gigli e delle tue rose." "Amo vederti errare per le vallate violacee, fulgido colla tua chioma color miele." Ma la verità è che Wilde, lungi dall'essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d'Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale ed universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza. L'incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura. 

Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore. 

Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L'autodifesa di Oscar Wilde nello "Scots Observer" deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Dorian Gray nessun lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l'ha commesso. 

Qui tocchiamo il centro motore dell'arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l'arguzia, l'impulso generoso, l'intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l'evo d'oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell'umile, è questa verità inerente nell'anima del cattolicesimo: che l'uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato. 

Nell'ultimo suo libro "De Profundis", si inchina davanti ad un Cristo gnostico, risorto dalle pagine apocrife della "Casa dei melograni" ed allora la sua vera anima, tremula, timida e rattristata, traluce attraverso il manto di Eliogabalo. La sua leggenda fantastica, l'opera sua, una variazione polifonica sui rapporti fra l'arte e la natura anziché una rivelazione della sua psiche, i libri dorati, scintillanti di quelle frasi epigrammatiche che lo resero, agli occhi di alcuno, il più arguto parlatore del secolo scorso, sono ormai un bottino diviso. 

Un versetto del libro di Giobbe è inciso sulla sua pietra sepolcrale nel povero cimitero di Bagneux. Loda la sua facondia, "eloquium suum", il gran manto leggendario che è ormai un bottino diviso. Il futuro potrà forse scolpire là un altro verso, meno altiero, più pietoso: "Partiti sunt sibi vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortes”.

James Joyce 

mercoledì 14 novembre 2012

Il compleanno di Dorian Gray

Meno un altro romanzo (il numero 24) della nostra lista! 

Leggere “Il ritratto di Dorian Gray” subito dopo “Delitto e castigo”, è come aver seguito lo stesso filo conduttore… Forse non è stato un caso, anche se non da me pensato.

Invece, ho pensato: accidenti, quant'è inglese!
Il modo di discutere dei protagonisti, è molto inglese. Riuscivo ad immaginarne anche l’accento.

Alla fine del romanzo, ci sono una decina di pagine bianche predisposte per le annotazioni, così come in esse è scritto; e le ho utilizzate man mano che mi venisse in mente qualcosa, così ora le seguirò per scrivere questo post con ciò che ho provato leggendo il romanzo di Wilde, o descrivendo alcune delle cose provate. 

La prima cosa pensata è: “Nessuno può influenzarti in niente, se non c’è già in te tal pensiero”. Questo è un concetto in cui già in passato mi sono imbattuta. La mia professoressa di Letteratura Inglese in “Cinema, Teatro e Musica” (che vestiva esattamente come un inglese del diciannovesimo secolo!) ci “costrinse” a studiare per l’esame un libro che aveva scritto e che pochissimo, se non niente, avesse a che fare con la materia che insegnava. La materia consisteva di per sé nei famosi sonetti di Shakespeare (ed io adoro Will e ancor di più i suoi sonetti!); il suo libro doveva servire ad interpretarli, o meglio, noi dovevamo leggerli e studiarli sotto la luce delle sue teorie. Beh, non erano totalmente campate in aria, anzi, in linea di massima credo fosse proprio come le descrivesse, soltanto che seguendo il filo del suo ragionamento era un’ipocrisia che noi non obiettassimo alla sua “orazione”. Così, un giorno, espressi un dubbio, un “secondo me” che non le piacque, anzi, “secondo lei” non ci capivo niente mettendo in dubbio qualcosa di assolutamente certo e vero, ovvero “il suo pensiero”. Non me la presi, perché la sua reazione confermò il mio dubbio ma rese veritieri i pensieri nel suo libro che lei non eseguiva però nella realtà: nessuno può influenzarti in niente, se non c’è già in te tal pensiero. Lei voleva influenzare la classe, ma io non ero nella predisposizione d’animo per farmi influenzare… ma non è che ne fossi immune, non lo ero solamente per quel determinato argomento. Comunque, era talmente concentrata a dar ragione al suo testo, che finimmo per parlare poco di Shakespeare, ma più delle sue idee che dovevano servire per Letteratura Inglese e per molte altre interpretazioni, ma che finirono per divenire fini di se stessi. (Comunque, commetterei un'ingiustizia dicendo che il suo libro parlasse solo del pensiero sopra espresso, era un po' più vasto e dettagliato, ma come sintesi, può andar bene quella frase). Dunque, seguendo questo ragionamento, l'Henry del romanzo di Wilde, non è colpevole delle decisioni di Dorian, perché in esso c'era già la voglia di seguire le sue "teorie"; Henry non avrebbe potuto spingerlo in nessuna direzione, se Dorian non avesse voluto già da prima di sentirle, come se cercasse qualcosa che facesse risuonare in sé pensieri su cui non voleva riflettere o non sapeva come fare. 

Le mie annotazioni del romanzo, proseguono così: “Il compleanno di Dorian è il 10 Novembre (e lo scopro al dodicesimo capitolo), ed è lo stesso giorno della mia decisione di legger di lui dopo “Delitto e Castigo", quando non avevo ancora terminato il secondo… E ne incominciai la lettura la sera dell’11 Novembre…”.
È un’altra coincidenza?
Non credo di saper credere alle coincidenze.

Il filo conduttore che lega il protagonista di “Delitto Castigo” a quello de “Il ritratto di Dorian Gray” è la “Coscienza”. Entrambi commettono un omicidio ed entrambi credono che sia l’orgoglio, unicamente l’orgoglio a muovere i loro passi, come anche pensano che soltanto il fallimento dell’orgoglio ferito metti in evidenza la coscienza, o qualcosa che le assomigli, che li faccia diventare paranoici e pazzi, che li faccia commettere errori… Dorian però mi appare peggiore di Raski. Raski non ci mette molto a rendersi conto dell’errore, ma non è questo... Entrambi sono dei poco più che ventenni. Raski commette subito lo sbaglio peggiore, Dorian ci arriva più tardi, ma nel frattempo forse fa peggio dello sbaglio peggiore; indurre al suicidio è peggio di uccidere materialmente? Soprattutto se il suicidio avviene in tuo amore o per l’influenza che su di esso hai esercitato? 

Capitolo quattordicesimo: “Ebbe la sensazione che se continuava a ruminare sull'accaduto avrebbe finito con l’ammalarsi o con l’impazzire. Il fascino di certi peccati risiede più nel ricordarli che nel commetterli; sono strani trionfi che soddisfano l’orgoglio più che le passioni e procurano all'intelletto una più vivace sensazione di gioia, più intensa di qualunque gioia che hanno procurato o che potrebbero procurare i sensi; ma questo non rientrava in quella categoria. Era una cosa che bisognava cacciare dalla mente, drogare con l’oppio, strangolare per non essere strangolati”. Raski e Dorian hanno la stessa reazione all'omicidio commesso, la loro psicologia è molto affine… E Dorian, ad un certo punto, rivolge la stessa domanda che anche Raski rivolge come una sorta di sfida: “Che diresti, Harry, se ti dicessi che Basil l’ho assassinato io?”. Harry non lo crede possibile, come non lo credevano per Raski, e questo quasi l’indispettisce di più. 

Le mie annotazioni proseguono così: “Le famose citazioni che circolano di Oscar Wilde, provengono quasi interamente da questo romanzo, ma prese separatamente da esso ne stravolgono il significato. Non sono corrette le affascinanti teorie di Henry alla luce di ciò che accade a Dorian, o comunque è scorretto l’uso che Dorian ne fa. Quanti Dorian ci sono in giro? Un romanzo va interpretato nel suo insieme. Troppi fraintendimenti da singole frasi! Ma se è vero che nessuno può influenzare alcuno, se le frasi che legge non sono già dentro di esso, allora semplicemente non si vuole guardare alla fine del racconto”. 

La fine di Dorian mi fa più piacere della fine di Raski. Se anche Raski fosse morto, mi sarebbe dispiaciuto. Non saprei esattamente la ragione, perché Dorian in qualche modo ha un motivo che lo spinge a commettere l’omicidio e in mezzo vi è la paura, Raski invece è soltanto spinto da una folle teoria, se pur mossa da alcuni pensieri “buoni”… Ecco, un’altra cosa che accomuna i due romanzi: le teorie! Teorie sulla vita che la portano all'autodistruzione.  Ma Raski, nonostante tutto, mi ha impietosito di più; forse perché è più umano… mentre Dorian è più fiabesco. 



lunedì 12 novembre 2012

Non esistono libri morali o libri immorali


Buongiorno bimbi artisti!
(sono stranamente costante: scrivo qui ogni giorno… o quasi!)
Dunque, dopo aver terminato il primo romanzo della nostra sfida, mi accingo alla lettura del prossimo che sarà il numero 24: IL RITRATTO DI DORIAN GRAY. La prefazione di Oscar Wilde al suo romanzo, mi è talmente piaciuta che ho deciso di riportarla qui per intero.

L’artista è il creatore di cose belle.
Rivelare l’arte e celare l’artista è la metà dell’arte.
Il critico è colui che può tradurre in maniera diversa o in un materiale nuovo l’impressione che le cose belle suscitano in lui. La più alta e la più bassa forma di critica sono entrambe una maniera di autobiografia.
Coloro i quali trovano nelle cose belle significati brutti sono corrotti senza essere attraenti. Questo è una colpa.
Coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli sono persone colte. Per questi c’è speranza.
Gli eletti sono coloro per i quali le cose belle significano soltanto bellezza.
Non esistono libri morali o libri immorali. I libri sono o scritti bene o scritti male: nient’altro.
L’antipatia del XIX secolo verso il Realismo è la rabbia di Calibano che non vede nello specchio il proprio volto.
L’antipatia del XIX secolo verso il Romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede nello specchio il proprio volto.
La vita morale dell’uomo costituisce per l’artista una parte del soggetto, o materia; ma la moralità dell’arte consiste nell'impiego perfetto di un mezzo imperfetto. Nessun artista desidera dimostrare alcunché. Anche le cose vere possono esser dimostrate.
Nessun artista prova simpatie di ordine etico. Una simpatia etica in un artista è un’imperdonabile affettazione stilistica.
Nessun artista è mai morboso. L’artista può esprimere qualsiasi cosa.
Pensiero e linguaggio sono per l’artista strumenti di un’arte. Vizio e virtù sono per l’artista materiale di un’arte.
Dal punto di vista della forma il prototipo di tutte le arti è l’arte del musicista. Dal punto di vista del sentimento il prototipo è l’arte dell’attore.
Tutta l’arte è a un tempo superficie e simbolo.
Colore che penetrano al di sotto della superficie lo fanno a proprio rischio e pericolo.
Coloro che interpretano il simbolo lo fanno a proprio rischio e pericolo.
È lo spettatore, non la vita, che l’arte, in realtà, rispecchia.
La divergenza di opinioni a proposito di un’opera d’arte dimostra che l’opera è nuova, complessa e vitale.
Allorché i critici son discordi, l’artista è d’accordo con se stesso.
Un uomo può esser perdonato se fa una cosa utile, a condizione che non l’ammiri. L’unica scusa per colui che fa una cosa inutile è che egli l’ammiri intensamente.
Tutta l’arte è perfettamente inutile.