Bonsoir!
Volevo cambiare genere, magari scegliere un romanzo
fantascientifico, ma ho trovato in casa “David Copperfield” e ieri sera, tra
lampi, tuoni, vento forte e la corrente elettrica che mancava, non sapendo che
altro fare, ho iniziato a leggerlo con una torcia in mano. E' una copia di mia madre, ben curata come i libri di un tempo, con tanto di foto dei personaggi immaginari. Mi piace un casino il profumo di carta "vecchia" che e emana... Credo che anni fa provai a leggerlo, c'è un segnale a pagine 43, ma non ne ho memoria. Forse, quel segnale era di mia madre...
DAVID COPPERFIEDL è il numero 42 della nostra lista.
Charles Dickens nacque duecento anni, nove mesi e nove
giorni fa. Scrisse il suo primo romanzo a ventuno anni e, come è scritto nella
sua biografia ad introduzione del romanzo, “combatté accanitamente, nelle sua
opera di scrittore, l’ipocrisia, i cattivi costumi ed i numerosi difetti della
società di allora”. Mi sta già piuttosto a cuore…
Fëdor Dostoevskij lesse “DAVID COPPERFIELD” nel campo di
prigionia in Siberia e ne rimase affascinato (già, sembra che inconsciamente
sto continuando a proseguire sullo stesso filo!). Sapete che a Dostoevskij è
stato dedicato un cratere sulla superficie di Mercurio? Chissà cosa ne
penserebbe…
Fëdor, prima di scrivere DELITTO E CASTIGO, venne arrestato
per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi e condannato alla
pena di morte nel 1849. Lo zar Nicola I cambia la sua condanna di morte in lavori
forzati a tempo indeterminato, ma a Fëdor viene comunicato solamente sul
patibolo, nonostante si sapesse già da giorni la sua nuova sorte. Ciò, com’è
evidente, segnerà molto lo scrittore portandolo a riflettere sulla pena di
morte e a scriverne spesso sulla propria contrarietà. Venne, poi, liberato per
buona condotta nel 1850 per scontare, infine, il resto della condanna come soldato
semplice.
Su DELITTO E CASTIGO, al capitolo sesto della parte seconda, Raski pensa:
“Dove ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, dice o pensa
che se gli fosse toccato vivere su un’alta cima, su una roccia, o su di uno
spiazzo tanto stretto da poterci posare soltanto i suoi due piedi - e intorno a
lui ci fossero degli abissi, l’oscurità eterna, un'eterna solitudine e una
eterna tempesta – e dovesse rimaner così, in un arscin di spazio, per tutta la
vita, per mille anni, in eterno – preferirebbe vivere in quel modo che morire
subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere!... Che verità!
Che verità! Signore! È vile l'uomo!... Ed è vile chi per questo lo chiama vile”.
Anche Oscar Wilde fu condannato a due anni di lavori forzati…
James Joyce scrive un articolo sulla sua vita, pubblicato il 24 marzo 1909 sul “Piccolo
della Sera”, un giornale di Trieste. Un articolo scritto in italiano dallo
stesso autore. Leggerlo mi ha fatto commuovere e interrogare più del romanzo e,
mi rendo conto, che nei panni di Oscar non mi farebbe per nulla piacere; ma,
come giustificazione, si può dire che è difficile restare impassibili alle
parole di James, scrittore non da meno degli altri sopra citati. E mi fa uno
strano effetto scoprire di questi grandi autori che si son letti l’un l’altro
e, in qualche modo, si sono difesi e protetti, anche senza conoscersi
personalmente, apprendendo vicendevolmente dalle letture di ciò che scrivevano;
ma, gli scrittori d’oggi, lo fanno anche loro?
Oscar
Fingal O'Flahertie Wills Wilde. Tali furono i titoli altisonanti
ch'egli, con alterigia giovanile, volle far stampare sul frontespizio della sua
prima raccolta di versi e con quel medesimo gesto altiero con cui credeva
nobilitarsi scolpiva forse in modo simbolico, il segno delle sue pretese vane e
la sorte che già l'attendeva. Il suo nome lo simboleggia: Oscar, nipote del re
Fingal e figlio unigenito di Ossian nella amorfa odissea celtica, ucciso
dolorosamente per mano del suo ospite mentre sedeva a mensa: O'Flahertie, truce
tribù irlandese il cui destino era di assalire le porte di città medievali, ed
il cui nome, incutendo terrore ai pacifici, si recita tuttora in calce
all'antica litania dei santi fra le pesti, l'ira di Dio e lo spirito di fornicazione
"dai feroci O'Flahertie, libera nos Domine". Simile a quell'Oscar
egli pure, nel fior degli anni, doveva incontrare la morte civile mentre sedeva
a mensa coronato di finti pampini e discorrendo di Platone: simile a quella
tribù selvatica doveva spezzare le lance della sua facondia paradossale contro
la schiera delle convenzioni utili: ed udire, esule e disonorato, il coro dei
giusti recitare il suo nome assieme a quello dello spirito immondo.
Il Wilde nacque cinquantacinque anni fa. Suo padre era un valente scienziato,
ed è stato chiamato il padre dell'otologia moderna: sua madre partecipò al
movimento rivoluzionario letterario del '48, collaborando all'organo nazionale
sotto lo pseudonimo di Speranza con le sue poesie e con articoli incitanti il
popolo alla presa del castello di Dublino. Ci sono delle circostanze
riguardanti la gravidanza di Lady Wilde e l'infanzia del figlio che, al parer
di alcuni, spiegano in parte la triste mania (se cosi è lecito chiamarla) che
lo trasse più tardi alla rovina, ed è certo almeno che il fanciullo crebbe in
un ambiente di sregolatezze e di prodigalità.
La vita pubblica di Oscar Wilde si aperse all'Università di Oxford ove,
all'epoca della sua immatricolazione, un solenne professore di nome Ruskin,
conduceva uno stuolo di efèbi anglosassoni verso la terra promessa della
società avvenire, dietro una carriola.
Il temperamento suscettibile di sua madre riviveva nel giovane; ed egli risolse
di mettere in pratica, cominciando da se stesso, una teoria di bellezza in
parte derivata dai libri di Pater e di Ruskin ed in parte originale. Sfidando
le beffe del pubblico proclamò e praticò la riforma estetica del vestito e
della casa.
Tenne dei cicli di conferenze negli Stati Uniti e nelle province inglesi e
diventò il portavoce della scuola estetica, mentre intorno a lui andava
formandosi la leggenda fantastica dell'apostolo del bello. Il suo nome evocava
alla mente del pubblico un'idea vaga di sfumature delicate, di vita
illeggiadrita di fiori: il culto del girasole, il suo fiore prediletto, si
propagò fra gli oziosi ed il popolo minuto udì narrare del suo famoso bastone
d'avorio candido luccicante di turchesi e della acconciatura neroniana dei suoi
capelli.
Il fondo di questo quadro smagliante era più misero di ciò che i borghesi
immaginavano. Medaglie, trofei della gioventù accademica, salivano di quando in
quando il sacro monte che ha il nome di pietà; e la giovane moglie
dell'epigrammatico dovette qualche volta farsi prestare da una vicina il danaro
per un paio di scarpe. Il Wilde si vide costretto ad accettare il posto di
direttore di un giornale molto insulso; e solo colla rappresentazione delle sue
commedie brillanti egli entrò nella breve fase penultima della sua vita: il
lusso e la ricchezza. Il "Ventaglio di Lady Windermere" prese Londra
d'assalto. Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi
irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw,
diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi. Diventò un arbitro
d'eleganze nella metropoli e la sua rendita annua, provento dei suoi scritti,
raggiunse quasi il mezzo milione di franchi. Sparse il suo oro fra una sequela
di amici indegni. Ogni mattina acquistò due fiori costosi, uno per sé, l'altro
per il suo cocchiere; e persino il giorno del suo processo clamoroso si fece
condurre al tribunale nella sua carrozza a due cavalli col cocchiere vestito di
gala e collo staffiere incipriato.
La sua caduta fu salutata da un urlo di gioia puritana. Alla notizia della sua
condanna la folla popolare, radunata dinanzi al tribunale, si mise a ballare
una pavana sulla strada melmosa. I redattori dei giornali furono ammessi
all'ispettorato ed, attraverso la finestrina della sua cella, poterono pascersi
dello spettacolo della sua vergogna. Strisce bianche coprirono il suo nome
sugli albi teatrali; i suoi amici lo abbandonarono; i suoi manoscritti furono
rubati mentre egli, in prigione, scontava la pena inflittagli di due anni di
lavori forzati. Sua madre morì sotto un nome d'infamia: sua moglie morì. Fu
dichiarato in istato di fallimento, i suoi effetti furono venduti all'asta, i
suoi figli gli furono tolti. Quando uscì di carcere i teppisti sobillati dal
nobile marchese Queensberry l'aspettavano in agguato. Fu cacciato, come una lepre
dai cani, da albergo in albergo. Un oste dopo l'altro lo respinse dalla porta,
rifiutandogli cibo ed alloggio, e al cader della notte giunse finalmente sotto
le finestre di suo fratello piangendo e balbettando come un fanciullo.
L'epilogo volse rapidamente alla sua fine e non vale la pena di seguire
l'infelice dalla suburra napoletana al povero albergo nel quartiere latino, ove
morì di meningite nell'ultimo mese dell'ultimo anno del secolo decimonono. Non
vale la pena di pedinarlo come fecero le spie parigine: morì da cattolico
romano, aggiungendo allo sfacelo della sua vita civile la propria smentita
della sua fiera dottrina. Dopo aver schernito gli idoli del foro, piegò il
ginocchio, essendo compassionevole e triste chi fu un giorno cantore della divinità
della gioia: e chiuse il capitolo della ribellione del suo spirito con un atto
di dedizione spirituale.
Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde
né di determinare fino a che punto l'atavismo e la forma epilettoide della sua
nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole
che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio.
La sua maggior colpa era quella di aver provocato uno scandalo in Inghilterra;
ed è ben noto che l'autorità inglese fece il possibile per indurlo a fuggire
prima di spiccare contro di lui un mandato di cattura. A Londra sola, dichiarò
un impiegato del ministero dell'interno, durante il processo, più di ventimila
persone sono sotto la sorveglianza della polizia, ma rimangono a piede libero
fintantoché non provochino uno scandalo. Le lettere di Wilde ai suoi amici
furono lette dinanzi alla Corte ed il loro autore venne denunziato come un
degenerato, ossessionato da pervertimenti erotici. "Il tempo guerreggia
contro di te; è geloso dei tuoi gigli e delle tue rose." "Amo vederti
errare per le vallate violacee, fulgido colla tua chioma color miele." Ma
la verità è che Wilde, lungi dall'essere un mostro di pervertimento sorto in
modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d'Inghilterra, è il prodotto
logico e necessario del sistema collegiale ed universitario anglosassone,
sistema di reclusione e di segretezza. L'incolpazione del popolo procedeva da
molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura.
Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti
espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore.
Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone
dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti
coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia.
Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento,
temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L'autodifesa di
Oscar Wilde nello "Scots Observer" deve ritenersi valida dinanzi alla
sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in
Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Dorian
Gray nessun lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l'ha commesso.
Qui tocchiamo il centro motore dell'arte di Wilde: il peccato. Si illuse
credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti
travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse)
della sua razza, l'arguzia, l'impulso generoso, l'intelletto asessuale al
servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l'evo d'oro
e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si
stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero
irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue
assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e
dell'umile, è questa verità inerente nell'anima del cattolicesimo: che l'uomo
non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e
di perdita che si chiama peccato.
Nell'ultimo suo libro "De Profundis", si inchina davanti ad un Cristo
gnostico, risorto dalle pagine apocrife della "Casa dei melograni" ed
allora la sua vera anima, tremula, timida e rattristata, traluce attraverso il
manto di Eliogabalo. La sua leggenda fantastica, l'opera sua, una variazione
polifonica sui rapporti fra l'arte e la natura anziché una rivelazione della
sua psiche, i libri dorati, scintillanti di quelle frasi epigrammatiche che lo
resero, agli occhi di alcuno, il più arguto parlatore del secolo scorso, sono
ormai un bottino diviso.
Un versetto del libro di Giobbe è inciso sulla sua pietra sepolcrale nel povero
cimitero di Bagneux. Loda la sua facondia, "eloquium suum", il gran
manto leggendario che è ormai un bottino diviso. Il futuro potrà forse scolpire
là un altro verso, meno altiero, più pietoso: "Partiti sunt sibi
vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortes”.
James Joyce
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